Sono passati più di quarant’anni eppure ogni tanto l’espressione viene ancora rispolverata: “Milano da bere”.
Battuta ironica, ma al tempo stesso nostalgica, espressione di una Milano che, forse, non c’è più. Ma cosa significa esattamente “Milano da bere?”
La storia racconta che si tratta di un modo di dire giornalistico degli anni Ottanta, quando Milano mirava alla ripresa socio- economica dopo i disastrosi anni di piombo. A inventare l’espressione fu però Marco Mignani, geniale pubblicitario milanese che creò lo slogan “Milano da bere” per pubblicizzare l’amaro Ramazzotti. Lo spot ebbe particolare successo per vari motivi, tra cui quello di essere in grado di ritrarre con grande efficacia la visione che i milanesi avevano di sé stessi e che il resto d’Italia tendeva ad attribuirgli: quella di una classe all’avanguardia, di yuppies laboriosi e dinamici, devoti alla competizione e alla scalata sociale.
Aldilà dello spot pubblicitario, l’espressione “Milano da bere” divenne però presto rappresentativa di tutto quello che era Milano negli anni Ottanta, che furono una decade a dir poco straordinaria. Era un messaggio di ottimismo, fiducia, voglia di fare e sognare. Nella Milano da bere infatti si respirava un’aria eccitante, c’erano Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Dario Fo, Franca Rame, Nanni Svampa e i Gufi. L’Inter e il Milan stravincevano.
Per quanto l’atmosfera inebriante della “Milano da Bere” si respirasse diffusamente in tutta la città, c’erano alcuni locali che, negli anni, vennero identificati come luoghi emblematici di quei tempi. Primo fra tutti il Bar Magenta, rimasto immutato, che in quegli anni era frequentato tanto dalla borghesia quanto dai giovani rivoluzionari. Poi c’era il Camparino che, trovandosi vicino a Piazza Duomo, vedeva spesso al suo bancone le forze politiche della città, talvolta accompagnate dai direttori de La Scala. Poi c’era il Gattullo, il bar dei musicisti e dei giornalisti, dove si discuteva di politica e si tirava tardi la sera. Infine, proprio nella nostra Brera, c’era, e c’è tuttora, il Jamaica, forse il locale più rappresentativo del fermento di quel periodo. Li si trovavano gli artisti, tutti più o meno squattrinati. Pittori, scultori, scrittori, fotografi e cineasti. Tutti al Jamaica a trovare conforti alcolici, a parlare di cultura e a barattare opere d’arte con cibo e bicchieri di vino.
Quegli anni sono passati, e con loro anche il delirio collettivo degli anni Ottanta. Ma Brera esiste ancora, esiste ancora il Jamaica, esiste ancora l’arte e, soprattutto, esistono ancora gli artisti. Tra una mostra e l’altra, vengono da Stendhal a mangiarsi una cotoletta.